È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pansa, con il suo Sangue dei vinti, lo aveva capito prima di altri. Raccontò storie scomode, di partigiani che uccidevano prigionieri fascisti già disarmati, di donne rasate e umiliate, di fucilazioni a guerra finita. Non lo fece per rivalutare il fascismo, ma per dire che non esistono morti giusti e morti sbagliati. Eppure fu subito etichettato come traditore, perché aveva osato mettere in discussione la narrazione monolitica di una Resistenza senza macchie e senza eccessi. Gli dissero che stava dando argomenti alla destra, che sporcava la memoria collettiva. In realtà, stava semplicemente restituendo dignità a chi era stato cancellato due volte: dalla vita e dalla memoria.
Oggi quella lezione ritorna, in forme diverse ma con la stessa crudezza. La morte di Charley Kirk, figura controversa della destra americana, ha acceso reazioni che sembrano più processi sommari che cordogli. Da una parte chi lo rimpiange come un combattente della propria parte, dall’altra chi lo insulta anche da morto, come se la tomba fosse un ring ancora aperto. Così la persona svanisce, resta solo il simbolo, l’effige ideologica da venerare o da disprezzare. Non c’è più l’uomo, non c’è più la fragilità della fine, c’è soltanto il marchio politico da colpire o difendere.
Ma il terreno più drammatico resta quello del conflitto mediorientale. Qui la gerarchia della morte è spietata. Le vittime israeliane hanno nomi, cognomi, storie personali che passano dai giornali alle televisioni, diventano protagoniste di speciali, di cerimonie, di cordogli ufficiali. I palestinesi, che cadono a migliaia sotto le bombe, sono ridotti a cifre senza volto, a “danni collaterali”. Non sono più esseri umani, ma massa indistinta, carne da macello. Si piange l’israeliano perché rappresenta l’Occidente ferito, si ignora il palestinese perché non entra nel racconto dominante. E quando non lo si ignora, lo si degrada: la sua morte viene giustificata come inevitabile, la sua vita come sacrificabile. È il grado estremo di quella divisione fra morti di serie A e morti di serie B che Pansa aveva denunciato con coraggio.
La verità è che la morte, se la guardiamo senza ideologie, è sempre la stessa. Porta via tutto, annienta differenze, azzera schieramenti. È la nostra narrazione che decide chi merita lacrime e chi merita oblio. Ed è proprio in questo gioco sporco di selezione del cordoglio che si misura il fallimento della nostra civiltà. Non abbiamo imparato nulla, né dai morti di ieri né da quelli di oggi. Continuiamo a dividere, a catalogare, a strumentalizzare. In fondo, per il potere, i morti servono soprattutto da vivi: come bandiere da sventolare, come pietre da lanciare contro il nemico, come simboli da manipolare.
Pansa lo aveva gridato a modo suo: dietro ogni cadavere c’è una storia, c’è una madre che piange, c’è un silenzio che dovrebbe imporre rispetto. Averlo dimenticato significa non solo tradire la verità, ma condannarsi a ripetere all’infinito lo stesso errore: pensare che il sangue abbia colori diversi, quando invece è sempre rosso.
